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mercoledì 21 settembre 2016

Timo

11:49:00
L’uccellino Timo era un giardiniere in erba. Ma non un giardiniere qualsiasi. Era giardiniere di sorrisi. Mangiava molti gnocchi e indossava sempre camice a quadrettoni. Le sue piume erano blu come gli occhi del cielo e gialle come la pelle dei limoni. Gli amici lo prendevano in giro: la sua cresta appuntita lo faceva rassomigliare a un unicorno. Ma Timo non si offendeva affatto, anzi, questa similitudine lo lusingava parecchio. Quella notte avrebbe spiccato il volo per costruire il suo nido in città. Si era allenato molto per quel viaggio e le sue ali minute promettevano grandi cose. Portò con sé paure, desideri e un materno promemoria, “Ricordati che sei tuo”, che come un faro avrebbe illuminato quella e tante altre rotte. Quando le luci della metropoli smisero di essere piccole piccole, Timo iniziò la discesa. Il vento soffiava forte, fortissimo, ma il giovane pennuto spingeva più del vento. Un unicorno può tutto, pensava sorridendo. Improvvisò allora acrobazie aeree, volteggi da capogiro e maestose piroette. Si sentii leggero come non mai e i dubbi divennero lievi come nuvole di zucchero filato. Così, dolcemente, planò sul tetto di un palazzo, scrollò le penne e iniziò a scrutare il nuovo orizzonte. Sul suo becco si piantò però una smorfia di sgomento. Il giardiniere vide una geometria fredda e senza colore: niente alberi, niente fiori, niente frutti. Neanche una foglia da calpestare. Il cemento aveva pietrificato tutto, persino i sorrisi. Grigie erano le facce, grigie erano le case, grigie erano le piazze. Gli umani avevano smesso di coltivare la bellezza e nutrivano di morte la vita. La notte lo avvolse con un abbraccio e Timo si addormentò. Al suo risveglio la città era ancora più nuda, coi suoi sbagli e le sue fragilità che vestivano di inverno ogni cosa. Si rimboccò allora la camicia, fece un respiro profondo, chiuse e gli occhi e si mise in ascolto: da qualche parte, ne era certo, c'erano cuori che avevano bisogno di sorridere. Che volevano tornare a sorridere. Tic tic. Ecco il primo ticchettio. Era quello di Candy, una signora dai capelli bianchi e dalle rughe dolci, che da troppo tempo si sentiva sola. Tic tic. Ecco il secondo ticchettio. Era quello di Mario, uno scolaretto diligente con la passione per il pallone e un papà troppo indaffarato per giocare. Tic tic. Ecco il terzo ticchettio. Era quello di Marta, una poetessa senza versi e un taccuino bianco in cerca di inchiostro. Tic tic. Ecco il quarto, poi il quinto, il sesto, il settimo ticchettio. Timo li raggiunse tutti e a ciascuno consegnò dei semi speciali da interrare al centro e ai margini della città. Il sole si alternò alla pioggia, la pioggia al sole e in poco tempo i semi speciali divennero alberi, fiori e frutti e tutti tornarono a sorridere. Candy fece amicizia con Pina, una maestra in pensione dal pollice verde. Mario e il papà, diventati custodi delle aiuole del quartiere, si divertivano a innaffiarsi a vicenda. Marta aveva ripreso a scrivere. Quella bellezza condivisa le fece germogliare nuovi raccolti di parole. E il giardiniere di sorrisi? Timo non smise mai di mangiare gnocchi, di indossare camicie a quadrettoni e di volare fiero e coraggioso, come un unicorno. Più di un unicorno.

giovedì 23 giugno 2016

Parola

12:32:00
Parola era un cane dagli occhi grandi grandi e dagli occhiali tondi tondi. Chiacchierone dalla erre moscia abitava da solo in una malconcia biblioteca abbandonata. Circondato da volumi impolverati leggeva a più non posso: storie d’innamorati, di guerrieri, di battaglie. Come quella che aveva aperto grandi buchi nell’edificio in cui viveva. Forse per fargli vedere meglio le nuvole, pensava. Accucciato sulla sua voragine preferita, quella del quarto piano, trasmetteva a chissà chi e con voce solenne il contenuto dell’ultimo tomo. Era un’edizione molto vecchia di poesie, quelle di Prévert, che cantano l’amore. Sfogliata l’ultima pagina, ripose il libro e si commosse. Quei versi pieni di sentimento gli avevano portato alla mente la vita pulsante all’interno del palazzo. Quanti cuori avevano salito e sceso quelle scale. Quante ricerche, quanti titoli e quante frasi sussurrate in quelle stanze. Ma ora solo silenzio. Un silenzio inquietante che suonava come un temporale senza pioggia. Parola, sazio di solitudine, si congedò da quei mattoni spenti di vita e con un balzo promettente di futuro piombò in strada. Era davvero impaziente di condividere le sue tasche zeppe di vocali e consonanti. Sollevò gli occhiali tondi tondi, sgranò gli occhi grandi grandi e iniziò a guardare a destra e a sinistra, in basso e in alto: scorse solo macerie e distruzione, case senza giochi e giochi senza bambini. Il sole brillava su una città senza battito. L’amore si era estinto e Parola, per la prima volta, non aveva parole. Si ricordò allora di una conversazione. Quella fatta con Memmo, un bimbo dai capelli e dalle lentiggini rosse rosse. Gli raccontò che era entrato nel tempio del sapere per affittare un racconto illustrato, quello che la nonna gli leggeva ogni sera e che lui aveva perso. Parlava di un signore brontolone, di un pappagallo e di un bambino vispo vispo. Ma la favola, quel giorno, non era disponibile. Memmo allora rovistò nelle tasche, tirò fuori un gessetto e sul pavimento la disegnò. “Quando le cose vanno storte le raddrizzo con i miei gessetti”, gli disse. Parola seguì l’insegnamento di quel piccolo concentrato di saggezza. Rovesciò le sue tasche zeppe di vocali e consonanti e l’amore riprese a battere.

sabato 28 maggio 2016

Iggy

12:00:00
Iggy era un cammello con tanti grilli per la testa. Showman dal talento speziato sapeva cantare, ballare e recitare. Amava la musica classica, i frutti di bosco e il thé alla cannella. Tra le gobbe trasportava vinili, copioni e un libro di ricette. Un turista sbadato gli aveva donato questa piccola fortuna.

Ogni sera si esibiva. Il silenzio del deserto gli offriva però pochi spettatori: due scorpioni, quattro serpenti e, ogni tanto, qualche pigra stella stanca di brillare. Per ogni granello di sabbia aveva composto una canzone. Per ogni oasi attraversata aveva messo in fila rime rigogliose. Per ogni duna cavalcata aveva danzato la sua coreografia più sfrenata. Ma l’immensità che lo circondava oramai gli stava stretta: Iggy voleva essere il primo cammello a calcare i prestigiosi palcoscenici di Broadway. Così trascorreva tutto il suo tempo a provare, provare e provare. Il suo impegno, ne era convinto, prima o poi sarebbe stato ripagato da applausi scroscianti ed emozionanti standing ovation.

Un mattino, seduto al pianoforte, si addormentò. Sognò nuovi strofe da cantare, nuovi testi da interpretare e nuovi passi da memorizzare. Li avrebbe messi in scena quella sera stessa ma, quella sera, neanche una stella distratta al suo cospetto. Senza pubblico e senza lodi lo showman dal talento sconfortato decise di ritirarsi per sempre dalle scene. 

Passarono molte mattine e molte sere fino a quando il silenzio del deserto fu rotto da suoni che sapevano di frutti di bosco e thé alla cannella. Sgranchite le zampe e spalancato il naso, Iggy si mise alla ricerca di quella musica perfetta. Corse per ore e ore e trascorsero altre mattine e altre sere. E quando l’odore di lampone e mirtilli si fece più forte, Iggy si fermò. Nel nero della notte scorse chiavi di violino trasformate in barche alate e il vento che fantasticava su e giù per il pentagramma. Erano le note appassionate di un cammello dalla lunga barba bianca, che in piedi e con gli occhi chiusi, rivolgeva alla luna la sua dolce sinfonia speziata.

Un pizzico di me

Ho manie di piccolezza. Mi piacciono i sassi, le foglie, gli origami. Mi piacciono gli occhi che non mentono, le dita che sfogliano, i piedini che calciano. Mi piacciono le parole semplici e gli haiku complessi, le chiavi che aprono ma non serrano, i coriandoli che volano, le frittelle che ingrassano. Mi piacciono le gocce di rugiada e le bolle di sapone. Sì, mi piacciono le piccole, le piccole grandi cose.

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