giovedì 23 giugno 2016

Parola

Parola era un cane dagli occhi grandi grandi e dagli occhiali tondi tondi. Chiacchierone dalla erre moscia abitava da solo in una malconcia biblioteca abbandonata. Circondato da volumi impolverati leggeva a più non posso: storie d’innamorati, di guerrieri, di battaglie. Come quella che aveva aperto grandi buchi nell’edificio in cui viveva. Forse per fargli vedere meglio le nuvole, pensava. Accucciato sulla sua voragine preferita, quella del quarto piano, trasmetteva a chissà chi e con voce solenne il contenuto dell’ultimo tomo. Era un’edizione molto vecchia di poesie, quelle di Prévert, che cantano l’amore. Sfogliata l’ultima pagina, ripose il libro e si commosse. Quei versi pieni di sentimento gli avevano portato alla mente la vita pulsante all’interno del palazzo. Quanti cuori avevano salito e sceso quelle scale. Quante ricerche, quanti titoli e quante frasi sussurrate in quelle stanze. Ma ora solo silenzio. Un silenzio inquietante che suonava come un temporale senza pioggia. Parola, sazio di solitudine, si congedò da quei mattoni spenti di vita e con un balzo promettente di futuro piombò in strada. Era davvero impaziente di condividere le sue tasche zeppe di vocali e consonanti. Sollevò gli occhiali tondi tondi, sgranò gli occhi grandi grandi e iniziò a guardare a destra e a sinistra, in basso e in alto: scorse solo macerie e distruzione, case senza giochi e giochi senza bambini. Il sole brillava su una città senza battito. L’amore si era estinto e Parola, per la prima volta, non aveva parole. Si ricordò allora di una conversazione. Quella fatta con Memmo, un bimbo dai capelli e dalle lentiggini rosse rosse. Gli raccontò che era entrato nel tempio del sapere per affittare un racconto illustrato, quello che la nonna gli leggeva ogni sera e che lui aveva perso. Parlava di un signore brontolone, di un pappagallo e di un bambino vispo vispo. Ma la favola, quel giorno, non era disponibile. Memmo allora rovistò nelle tasche, tirò fuori un gessetto e sul pavimento la disegnò. “Quando le cose vanno storte le raddrizzo con i miei gessetti”, gli disse. Parola seguì l’insegnamento di quel piccolo concentrato di saggezza. Rovesciò le sue tasche zeppe di vocali e consonanti e l’amore riprese a battere.

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Un pizzico di me

Ho manie di piccolezza. Mi piacciono i sassi, le foglie, gli origami. Mi piacciono gli occhi che non mentono, le dita che sfogliano, i piedini che calciano. Mi piacciono le parole semplici e gli haiku complessi, le chiavi che aprono ma non serrano, i coriandoli che volano, le frittelle che ingrassano. Mi piacciono le gocce di rugiada e le bolle di sapone. Sì, mi piacciono le piccole, le piccole grandi cose.

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